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APRI I COLLEGAMENTI ALLE NOTE AL TESTO

(busta B fascicolo 45) 
Spiegazione della pericope evangelica della Domenica VI dopo l’Epifania (Matteo 13,31-35)
“Le piccole cose”

 I. Due parabole apporta s. Luca nella lezione evangelica della scorsa domenica. Nella prima ci dice che il regno dei cieli è simile ad un granello di senape, il quale seminato da un uomo nel suo campo, benché da principio sia piccolo in se stesso, cresciuto poi coll’aiuto della pioggia e del calore del sole, si alza sopra tutti gli erbaggi, e diviene un albero sì grande, che gli uccelli dell’aria volano di buon grado a rifugiarsi sotto l’ombra dei suoi rami: simile est regnum caelorum, grano synapis, quod accipiens homo seminavit in agro suo; quod quidem est minimum omnibus seminibus; cum autem creverit, maius est omnibus oleribus, et fit arbor, ita ut volucres caeli veniant, et habitent in ramis eius. Nell’altra parabola ci fa intendere che il regno dei cieli è somigliante al lievito, il quale preso e messo da una donna dentro a tre misure di farina, fermenta tutta la pasta e la condisce in modo da renderla un ottimo pane: simile est regnum caelorum fermento, quod acceptum mulier abscondit in farinae satis tribus, donec fermentatum est totum. Con queste due parabole, come voi vedete N.N., Gesù Cristo ha voluto insegnarci che piccole cose possono essere e sono talvolta difatto principio di grandi effetti; e che per conseguenza la pratica delle virtù piccole suole essere appunto quella che, mantenendo in noi il fervore della carità, ci fa crescere ed avanzare per modo nella grazia ed amicizia di Dio che, quasi alberi venuti su da picciolissimo seme, ci innalza a sì alto grado di santità da muovere a maraviglia ancor gli angeli del paradiso. Non vogliate dunque sapermi malgrado, o mie N., se io prendo di qui occasione per esortarvi a far gran conto delle piccole cose, ad approfittarvi con diligenza d’ogni buona opportunità per piccola che ella apparisca in se stessa, perché da questa appunto, ed anche da una sola di queste può dipendere la nostra eterna salute, come vedremo.

 II. Ella è verità di fede che Iddio, quanto alla sua volontà antecedente non solo di segno (come dicono i teologi) ma ancora di beneplacito, ha destinata a tutti la gloria del paradiso; e vorrebbe veracemente che si salvassero tutti, e non si perdesse nessuno: Deus vult omnes homines salvos fieri. Ma se lo stesso è il fine, a cui tutti dobbiamo giugnere, non sono però stesse le strade da giungere ad un tale fine. Anzi nella vita di ciascun uomo Iddio vede, come c’insegnano le scuole, innumerabili connezioni, concatenazioni, o serie di avvenimenti, le quali come tante strade maestre conducono altre dirittamente alla gloria, ed altre dirittamente alla perdizione; vias vitae, et vias mortis, così lo Spirito Santo in Geremia. Ora che l’uomo s’incammini piuttosto per una di queste strade che per un’altra, dipenderà talora da cose piccolissime. L’udire o il non udire una predica, il leggere o il non leggere un libro; il ricevere in bene e l’approfittarsi, o il non far nessun conto di quella ammonizione, che ci viene fatta caritatevolmente di quel difetto; il far silenzio, o non farlo in quella circostanza; il dire, o non dire quella parola di critica; il parlare o non parlare con quella persona; l’andare, o il non andare a far quella visita, può esser quello che o c’incammini al cielo, o c’incammini all’inferno. Ho detto, che c’incammini, perché (vedete) non dipenderà la nostra salute immediatamente da tali cosette, ma ne dipenderà rimotamente. Udite con attenzione e intenderete meglio questa dottrina.

III. Racconta s. Agostino che, dimorando l’ Imperatore Teodosio nella città di Treviri a rimirare i famosi giuochi del circo, due dei suoi cortegiani si vollero appartare da quello spettacolo, e uscendo fuori delle mura per godere l’aria della campagna, passarono d’una in altra strada, finché s’incontrarono in una solitaria boscaglia, dove abitavano sotto una rozza casuccia alcuni penitenti romiti. Entrarono per curiosità in quel tugurio, e mentre ammiravano l’angustie dell’abitazione e la scarsità dei mobili, videro un libro assai lacero, che giaceva sopra un tavolino. Uno di essi lo piglia, l’apre, e s’avvede contenervisi le gesta di s. Antonio abate. Comincia a leggere, prima per curiosità poi per diletto; indi a poco a poco sente anche infiammarsi all’imitazione. Quando all’improviso avvampando tutto nel cuore di un santo amore, prorompe in un sospiro e dice al compagno: “Poveri noi, che seguitiamo una strada tanto diversa! Ditemi un poco per vita vostra, o Signore, che pretendiamo noi con tante fatiche, con tanti servizi, con tante umiliazioni che usiamo in corte, che pretendiamo noi? Possiamo mai sperar di più, che di conseguire l’amicizia e la benevolenza dell’Imperatore? Maior ne esse poterit spes nostra, quam ut amici Imperatoris simus? E questo è anch’incerto, perché la vita è breve, la gioventù fallace, le forze manchevoli, i concorrenti molti, e i posti son pochi. E quand’ ancora ci arrivassimo, ch’avremo fatto alla fine? Avremo cambiato fatica con fatica, servitù con servitù, pericolo con pericolo. Ci converrà vivere sempre in timore, e star sempre in guardia per le grand’invidie, da cui saremo sempre assediati. All’incontro per diventare amico di Dio, basta volerlo; niuno ce lo potrà mai contendere, niuno impedire: amicus autem Dei, si voluero, ecce nunc fio”. Dopo queste parole dette al compagno tornò a fissare gli occhi sul libro, e quasi assorto per la gran mutazione, che già ravvolgeva nell’animo, leggeva insieme e gemeva; ora pallido, ed or acceso in faccia; ora pensieroso ed ora lagrimante. Finalmente chiude ad un tratto il libro, e battendo con la mano il tavolo, dice risolutamente al compagno: “Quanto a me, io ho stabilito del tutto di non partirmi di qui. Da quest’ora ed in questo luogo medesimo io voglio consacrarmi tutto a Dio. Se voi non mi volete imitare, astenetevi almeno dal disturbarmi. Ego iam Deo servire statui, et hoc ex hora hac in hoc loco aggredior; te si piget imitari, noli adversari. “Come?, ripigliò il compagno commosso da tal esempio, non sia mai ch’io ritenga per me la terra, e a voi lasci il cielo. O ambidue ritorneremo alla reggia, o ci chiuderà ambidue questo tugurio”. E così risolutisi senza tornar neppure prima all’Imperatore, gli mandarono dentro un foglio la loro concorde risoluzione, e deposti subito i pomposi ornamenti, si copersero di un sacco, si cinsero d’una fune, si chiusero in una cella; ed ivi in somma mendicità, sempre squallidi, sempre scalzi menarono il resto dei loro giorni, non mai però più famosi al mondo, che quando lo disprezzarono. Ora ditemi un poco N.N., tante opere buone, che questi due novelli romiti dovettero poi fare sicuramente per acquistarsi la gloria del paradiso, donde ebbero quel principio, chiamato già nei divini proverbi dallo Spirito Santo “principio di buona strada”? Initium viae bonae. Mirate donde: dall’essersi ritirati da uno spettacolo. Quindi dispose Iddio che uscissero a passeggiare; dal passeggiare che incontrassero il Romitaggio; dall’incontrare il Romitaggio che leggessero il libro; dal leggere il libro che si accendessero di sentimenti divoti: quindi che aborrissero la corte, che abbandonassero la casa, che abbracciassero il chiostro, che camminassero sulla regia via della croce. Fingete invece, che questi due cortegiani si fossero trattenuti anch’essi a quei giuochi, a cui forse potevano intervenire senza colpa grave; sarebbe accaduto alcuno di questi casi? È moralmente certo che no; giacché tutte le cose, se noi vogliamo credere allo Spirito Santo, hanno una loro propria opportunità, a cui sono affisse: omni negotio tempus est et opportunitas. Anzi sarebbe piuttosto seguita una serie di avvenimenti assai diversa, la quale Dio sa dove gli avrebbe forse condotti. Imperocché avrebbono essi probabilmente perseverato nel servizio del Principe, nelle vanità delle signorie, nei vizi del secolo, e per conseguente ancora nei pericoli dell’inferno. Questi due uomini dunque debbono riconoscere la loro eterna salute (non già come da cagione prossima, ma come da cagione rimota) dall’aver lasciata una ricreazione non tanto lodevole. Questo fu per loro a guisa di quella piccolissima fonte, veduta poi da Marducheo convertirsi in un vasto fiume. Questo fu a guisa di quel piccolissimo sasso, veduto poi da Daniele cambiarsi in smisurata montagna. Questo fu a guisa del granello di senape, di cui parla l’evangelista s. Luca, cresciuto poi in grandissimo albero. Granum synapis, quod minimun quidem est omnibus seminibus; cum autem creverit maius est omnibus oleribus, et fit arbor. Ora figuratevi che da così piccole cose incominciassero appunto quasi tutti quelli, che noi sappiamo essere di presente arrivati a sublimissimi gradi di perfezione e di santità.

 IV. Pochissimi certamente furono quei santi, che nacquero santi: nella legge antica vi fu un Geremia, nella nuova un Giovanni Battista. La maggior parte degli altri non nacquero santi, ma lo diventarono, e che il diventassero, qual ne fu la cagione? Ad uno fu l’aver secondato un consiglio come accadette alla nostra s. Catterina Fieschi; la quale portatasi un giorno dalla sua sorella Limbania, monaca nel Monastero delle grazie, per avere da essa un qualche sollievo nelle grandi afflizioni, in cui si trovava da cinque anni per i mali trattamenti che riceveva dal marito, fu da quella consigliata ad andarsi a confessare un poco dal direttore di quel Monastero; e ubbedendo Catterina, appiè di quel confessore si sentì sorpresa da tanta grazia, che da quel punto diede un addio generoso a tutte le cose di quaggiù, e gettò le fondamenta di quella gran santità che voi sapete. Ad altri fu l’aver contemplato attentamente un cadavero, come avvenne a s. Francesco Borgia; ad altri fu l’avere perdonata pietosamente un’ingiuria, come a s. Giovanni Gualberto; ad altri l’aver sovvenuto caritatevolmente un povero, come a s. Francesco d'Assisi; ad altri l’aver tollerata innocentemente una prigionia, come a sant’Efrem Siro; ad altri l’ essere caduto vergognosamente nel fango, come al beato Consalvo Dominicano; ad altri l’aver ricevuto opportunamente un rimprovero dalla madre, come a s. Andrea Corsini; ad altri l’aver sopportato in pace una calunnia, come alla casta Susanna; ad altri l’aver sofferto con pazienza una ingiusta persecuzione, come Giuseppe e s. Stanislao Chosta; ad altri .... ma che cercar più oltre?

 V. Qual maggior santità può figurarsi di quella a cui giunsero, benché per diversissime strade, un Antonio abate, ed un Ignazio di Lojola? Ambidue furono Patriarchi d’innumerevole figliuolanza, quantunque l’uno di gente solitaria e contemplativa, l’altro di persone trattabili ed attive. Antonio popolò le selve di santissimi monaci; Ignazio riempì le città di zelanti predicatori. Ambidue nei princìpi della loro conversione ebbero dai demoni contrasti travagliosissimi; perché se ad Antonio i demoni apparivano spesso in forma di animali feroci, ad Ignazio comparivano ancora col volto di femmina lusinghevole: ma ambidue all’incontro esercitarono sopra i demoni grandissima padronanza; e dove Antonio li fugava con la voce, Ignazio gli discacciava col bastone. Ambidue arsero d’una voglia accesissima del martirio, per cui sfogare, andarono Antonio in Alessandria, e Ignazio in Gerusalemme; benché Dio gli volesse preservare ambidue per dare la vita a molti, e ristorare col loro mezzo le perdite, che cominciava a patire la sua chiesa nei tempi di Antonio per l’eresia di Ario, e nei tempi d’Ignazio per l’eresia di Lutero; per opporsi al furore dei quali il primo lasciò per qualche tempo i deserti della Tebaide, il secondo lasciò per sempre la solitudine di Manresa. Ora ditemi. La santità di ambidue questi grand’uomini donde ebbe il suo incominciamento? Initium viae bonae, o come volete, granum synapis? Non vi pare che dovesse essere un gran seme quello, il quale produsse due piante così generose? Eppure non fu così. Nell’uno initium viae bonae fu l’ascoltare attentamente una messa; nell’altro initium viae bonae fu leggere attentamente un libro. Entra Antonio ancora giovinetto in una chiesa per udir messa, e s’incontra in quel vangelo, nel quale si dice: “Se tu vuoi esser perfetto, va vendi ciò che possiedi, e poi seguimi”. Egli lo stima detto a se, ed indi si risolve a far vita simile a Cristo. Ignazio non potendo uscir di casa perché ancor fresco di malattia, dimanda qualche libro da leggere per passatempo, e gli viene recato il leggendario dei santi in cambio dei romanzi che pur avrebbe voluti; comincia a leggerlo, e quinci si determina di far vita simile a loro. Ora se non avessero l’uno udita quella messa con attenzione, e l’altro letto quel libro buono che, vogliamo dire, sarebbe stato di essi? Sarebbero ambidue divenuti quei gran santi, che ora noi veneriamo? Io non lo so, perché tutto ciò si appartiene agli occolti giudizi di Dio, che sono abissi impenetrabili; ma potrebbe esser ancora molto probabile che non lo fossero divenuti, perché assai spesso Iddio suole determinare la santità, anzi la salvezza degli uomini ad una tal opera buona molto ordinaria, la quale se essi eseguiscono, egli poi comunica loro una grazia tanto soprabbondante, ed una protezione tanto speciale, che giungono infallibilmente al paradiso; ma se non la eseguiscono, gli priva di tali aiuti più liberali, i quali, come insegnano i teologi, non sono dovuti né per legge di provvidenza, né per legge di redenzione; e provvedendogli degli aiuti solamente consueti e sufficienti, lascia che seguano i loro fallaci consigli, e così si perdono. Questo è appunto quello, che ci inculcano i santi, quando ci dicono, che da un momento dipende l’eternità: momentum a quo pendet aeternitas.

 VI. Alcuni credono che questo momento sia solamente quello della morte, però non si curano di tanti altri, quasi che basti impiegar bene quel solo: ma non è così. Per alcuni questo momento è nella fanciullezza, per altri nella gioventù, per altri nella virilità, per altri nella vecchiaia. Ed è quel momento, al quale Iddio terribilissimo nel consiglio che egli tiene sopra i figli degli uomini - terribilis in consiliis super filios hominum - ci attende, per così dire, come al varco affine di provare la nostra cordialità, la nostra corrispondenza: non perchè passato quel momento non ci sia sempre possibile egualmente la salute, o la dannazione (questo non si può dire), ma perché da quello dipenderà che incontriamo nell’avvenire maggiori o minori difficoltà per operare il bene; che abbiamo maggiori o minori forze a schivare il male; in una parola, che troviamo o non troviamo la grazia, per usar la frase di s. Paolo, in auxilio opportuno. Vediamo questo in un preclarissimo esempio delle divine Scritture, il quale conferma a maraviglia il nostro intento. Predicando nella Giudea s. Giovanni Battista, animato dallo Spirito di Dio si portò anche nella corte del Re Erode, e fece intendere schietto a questo Principe, che assolutamente non poteva tener seco la moglie del suo fratello Filippo; che tutta la città era scandalizzata del suo operare e che perciò procurasse di riparare a tanto disordine; e disporsi anch’esso con una vera penitenza a ricevere la grazia del Salvatore. Erode non diede retta alla voce del Battista, e invece di approfittarsi del savio ammonimento, accecato dalla passione, se ne risentì acremente, e quantunque avesse una tal qual stima del Precursore, nondimeno lo discacciò allora dalla sua presenza, e per non sentirsi più rintuonare da lui all’orecchio quel disgustoso non licet, non ti è lecito, lo fece chiudere in oscura prigione, e poi, come sapete, anche decollare per compiacere la figlia della sua prediletta. Quando poi Pilato, per sbrigarsi della causa di Gesù Cristo, e non essere obbligato a condannare un innocente, mandò il Nazareno legato ad Erode, Erode gradì molto di vedersi dinanzi quel Gesù da Nazaret, che da gran tempo desiderava di vedere per le grandi cose maravigliose che aveva sentito raccontarsi di lui; e si persuadeva che questa volta li sarebbe stato facile l’udire dalla sua bocca qualche cosa di bello ed anche forse qualche prodigio, che Gesù avrebbe oprato alla sua presenza, anche affine di liberarsi dalle sue mani; e perciò gli rivolse varie e diverse interrogazioni; lo sollecitò più volte a rispondere; ma Gesù alla presenza di Erode non apre bocca e tace. E sapete perché? Perché Erode non si volle approfittare del rimprovero che li fece Iddio dei suoi misfatti per bocca del suo Precursore, così ora Gesù lo lascia nelle sue tenebre, non parla più con lui, non li fa più intendere la sua volontà, quantunque egli mostri desiderio di risaperla; lo lascia accecato nel suo peccato, perché non ha egli voluto in tempo prestare orecchio a quell’ invito, dare ascolto a quella voce con cui lo chiamava a penitenza.

VII. Ecco o mie N., quanto importa non trascurare alcuna buona opportunità, se non ci si vuole esporre ad evidente pericolo di perdersi eternamente. Mostriamo noi dunque d’aver giudizio: facciamo conto di tutto anche delle piccole virtù; non trascuriamo mai alcuna opera buona per piccola che sia in se stessa; quella operetta, quell’orazione, quell’avviso, quel consiglio, quella mortificazione, quell’ obbedienza, quella piccola osservanza, quel silenzio che noi non curassimo, potrebbe esser quello, che ci privasse di quegli divini speciali aiuti, senza di quali non si giunge a salvamento, ma ci si incammina invece su d’una pessima strada, vias mortis. Che Dio ce ne liberi.

(busta B fascicolo 46)
Spiegazione della pericope evangelica della Domenica di sessagesima (Luca 8,4 -15)Disposizioni per udir con frutto la divina parola

I.All’udir che faceste da me l’altra volta, N.N.: la maravigliosa virtù, l’efficace potenza della divina parola; io non provo difficoltà a credere che voi non aveste fin d’allora in cuore una gagliardissima opposizione da obbiettarmi. Sarete certo andate tra voi dicendo che se la predicazione evangelica fu già nei primi tempi una calamita di tanta forza che tirava anche i cuori più duri e più ostinati, una spada sì robusta che spezzava perfino i cedri del Libano, una voce così possente che faceva intendersi dai peccatori non solamente morti per la colpa, ma incadaveriti e puri scheletri per i vizi invecchiati, e sapeva anche rivestire di fresca carne quell’aride ossa e tutte rianimarle di nuovo spirito - ossa arida audite verbum Dei -, conviene però dire, che al presente abbia perduta la sua efficacia, poichè al giorno d’oggi se ne vede sì poco frutto tra i cristiani medesimi: e noi dopo tanti predicatori, tante prediche, tanti esercizi, tante letture, un po’ più un po’ meno siamo sempre questi stessi di prima. Benissimo, signore mie, benissimo: pur troppo è vero quello che voi mi dite. Ma se la divina parola non produce frutto in noi di chi è la colpa? Non certamente della parola stessa, perchè Ella è viva, dice s. Paolo, ed è efficacissima, come abbiamo detto: vivus est sermo Dei et efficax. È viva ed ha virtù di far sempre operare. È efficace e riduce comunemente la virtù all’atto e fa sì che realmente si operi. E la sua vita, e la sua efficacia non può mancarle giammai perché si fonda in quegli aiuti che Dio in questa occasione più che in verun’altra diffonde sui nostri cuori. Neppure può venir da Dio la causa per cui non fa frutto la sua santa parola; ch’anzi egli vuole se ne approfittino tutti senza eccezione ordinando perciò espressamente ai suoi ministri di annunziarla a tutti in ogni tempo e in ogni luogo - euntes in mundum universum docete omnes gentes .... predicate evangelium omni creaturae - e vuole, anzi ardentissimamente brama riceverne da tutti copiosissima raccolta: ego elegi vos ut eatis et fructum afferatis. Donde avviene dunque che si rimane per noi infruttuosa la parola di Dio? Uditemi con attenzione e lo vedrete.

II.Se la divina parola produce in noi poco o niun frutto, la colpa è tutta nostra; perchè noi non la riceviamo con debite disposizioni. Questa, e non altra è la vera cagione della sua lagrimevole sterilità. In vero, leggeste voi mai il capo 8 del Vangelo di s. Luca? In quel capo il santo Evangelista ci presenta la parola di Dio sotto l’allegoria di misteriosa semente, una parte sola della quale produsse abbondantissimo frutto: e sapete perché? Non già perché la semente non fosse di un buon terreno: semen est verbum Dei, quod autemncecidit in terram bonam ortum fecit fructum centuplum. Affinché dia frutti ubertosi la parola divina fa d’uopo riceverla, disse Cristo medesimo di propria bocca, con buono ed ottimo cuore e ritenerla in esso con gelosia: qui in corde bono et optimo audientes, verbum retinent, fructum afferunt in patientia; che è quanto dire ascoltarla con attenzione, con riverenza, custodirla qual prezioso tesoro nel proprio cuore ed applicarla a tempo opportuno ai propri bisogni.
III.Ci vuole primieramente attenzione. Il principio della sapienza è sempre stato, e da tutti riconosciuto come indispensabile, un vivo ardente desiderio d’essere istruito. E se questo è vero per ogni sapienza umana, molto più si richiede per quella sapienza tutta celeste che edifica all’eterna salute, e senza cui non può operarsi alcun che di virtuoso. Ma è poi egli sempre con tale intendimento che noi ci portiamo alla predica? Abbiamo noi sempre questo vivo desiderio d’essere istruiti di conoscer bene i nostri doveri onde poterli adempiere perfettamente, quando ci richiama ad udire la divina parola? Pur troppo soventi volte si viene alla predica per fare materialmente come fanno le altre; del resto non si porge all’istruzione quell’attenzione che vi si dovrebbe, o anche in quel tempo medesimo si lavora o si ciarla se piace. Ora qual profitto volete voi che ricavi dalla predica chi vi sta distratto e disattento? Chi non ode, chi non attende a ciò che vi si dice? Chi s’occupa di tutt’altro che della santa parola? Quando si predica sono due che parlano, il sacerdote dalla grata all’orecchio, e Dio al cuore dal cielo: Spiritus Domini locutus est per me, ce lo attesta il Profeta. Non vuole Dio parlar egli solo, ma vuole confermar solamente e convalidare quello che viene detto dal suo ministro, giusta il costume ch’egli ha di concorrere ai mezzi esteriori dalla Chiesa adoperati per la salute delle anime, con interiori aiuti ai medesimi mezzi corrispondenti; epperò se noi non stiamo attenti alla voce dell’uomo, non speriamo mai d’aver ad udire la voce di Dio. Locchè ci volle significare appunto il divin Salvatore, allorché inviando i suoi Discepoli ad annunziare la sua parola a tutte le genti, disse, “Chi ascolta voi, ascolta me; chi le vostre parole, i vostri detti non cura, neppure li cale dei frutti miei: qui vos audit, me audit, qui vos spernit, me spernit”. A cavar profitto dalla predica ci vuole innanzitutto attenzione. Lo so che i demoni, tanto gelosi del nostro meglio, lasceranno nulla d’intentato per impedire in voi il frutto della predicazione celeste, siccome fecero sempre con chicchessia, e assediandovi invisibilmente mentre state a predica, faranno sì che talora vi assalisca d’improvviso un tedio che sembrar vi faccia il discorso ora malinconico, ora frizzante, ora importuno, ora inviluppato, ora lungo; che talora vi opprima la sonnolenza o vi molesti la fantasia, o volgiate gli sguardi attorno; insomma, faranno di tutto per astutamente divertirvi, onde togliervi, per così dire, di mano il cibo e farvi perdere quella parola o quel passo che per voi forse sarebbe di maggiore pro; ma se voi starete attente con desiderio grande di istruirvi resteranno delusi nei loro disegni.
IV.Oltre poi all’attenzione, ci vuole in ascoltar il predicatore la riverenza   riconoscendo Iddio nel suo ministro e l’autorità del giudice nella voce del   banditore: tamquam Deo exhortante per nos, dice s.Paolo. Quindi si debbono   ricevere le parole del sacerdote che parla, come parole non di un uomo   peccatore, ma quali parole di Dio onnipotente; i suoi avvisi, le sue   correzioni, i suoi documenti, come avvisi, correzioni e documenti che venganci   spediti dal cielo, siccome facevano i cristiani antichi, i quali per questo   stesso si meritarono tanta lode dal santo Apostolo, che a questa principale   cagione egli volle ascrivere il frutto grandissimo che essi ne cavarono delle   loro conversioni: non accepistis illud ut verbum hominum, sed, sicut est vere,   ut Verbum Dei. Ma ditemi in fede vostra, N.N., facciamo noi cosi? Riceviamo noi   le parole del predicatore, quali parole di Dio? Se avvenga che il sacerdote   dica qualche cosa che sia di nostro gusto, che racconti belli esempi, che   discorra con eleganza, con ordine e metta in chiara luce massime e teorie, oh   noi restiamo estatici in ammirazione, ne parliamo tra noi nell’uscir di chiesa:   “Quanto bene, diciamo, si è portato il predicatore! Che bel discorso ha fatto   questa sera! Bravo, mi è proprio piaciuto!”. Ma se poi scendendo dalle teorie   alla pratica ci tocca un po’sul vivo, e animato da apostolico zelo, e dal   desiderio del nostro meglio ci spiega dinanzi quel che dobbiamo fare e quel che   dobbiamo omettere, ci fa vedere l’importanza dell’adempimento dei propri,   religiosi no, ma almeno cristiani doveri per il severissimo conto che dovremo   renderne al divin tribunale; c’inculca l’annegazione della propria volontà,   l’umiltà, la mansuetudine, la carità, il perdono e la dimenticanza delle offese   e torti ricevuti, il rispetto e l’ubbidienza a chi comanda, l’unione e la pace   coi nostri simili; se ci fa osservare quanto gran male sia per una comunità il   non procedere in tutte le cose di comune accordo, di buon’armonia come richiede   il vero spirito religioso, e suscitare invece discordie, formar partiti tra   compagne e compagne; oh allora il parlar del sacro ministro non piace, la   predica ci riempie di malumore, ci fa inarcare le ciglia, e presto presto si   mette in dimenticanza, se pur non vi sia forse ancora chi vada dicendo che il   predicatore parla per stizza, o per essere stato imbeccato e vuol spaventare   fuor di proposito; e con ciò si sbriga da tutto, non fa alcun caso della verità   udita, e continua a dormirsene tranquillamente sopito nelle sue viziose   abitudini e malvagie inclinazioni. E vi pare che sia questo un ricevere i detti   del sacerdote quai detti di Dio medesimo, e i suoi documenti, le sue   ammonizioni, quali documenti e ammonizioni del cielo? Qual frutto mai volete   aspettar voi da una predicazione udita in questa forma? Riverenza adunque   riverenza.

V.Benché a cavar profitto dalla parola di Dio non basta udirla con attenzione, riceverla con riverenza come parola venuta dal cielo, ma fa mestieri inoltre custodirla gelosamente nel nostro cuore, rammemorarla ben di sovente, meditarla ed applicarla alla propria bisogna, mettere insomma in pratica quanto essa ordina e prendersela a regola del nostro vivere. Gesù Cristo infatti non chiamò beati quelli che solamente ascoltano la divina parola, ma quelli che la conservano inoltre vivamente impressa nel loro cuore per eseguirne appuntino gl’insegnamenti: beati qui audiunt verbum Dei, et custodiunt illud. Tante volte da noi si sta alla predica come gli svogliati a mensa senza gustare, senza godere, senza cibarsi, e non si fa altro che dispensare ad altri il cibo, che tutto avidamente si dovrebbe serbare per noi, non si fa altro, dico, che applicare ad altri quanto si sente dire. Oh come questo calza bene a quel cotale, a quella tale che è così puntigliosa e delicata! Oh come questo si confà a quell’altro e quell’altra, che è sì superba, si esigente ed intrigante! Questo ora è detto certo per la tale, ch’è sì piena di se stessa e di vana stima che vorrebbe soprastare a tutte; che si lascia trasportare da sì pazza ambizione che il suo vestire sembra più da secolare che da persona religiosa. Oh se fosse un po’ qui presente! Eh badiamo, mie N., badiamo a mangiar per noi, perché ciò che lasciamo ad altri non nutrisce noi. L’uomo prudente, dice lo Spirito Santo, applica a se quanto egli ode di profittevole: verbum Sapiens quodcumque audierit scius laudabit, et ad se adiicet. Volete dunque voi dalle prediche cavar profitto? Venite sempre ad udire la divina parola con delle buone disposizioni. Uditela con attenzione, ricevetela con riverenza. Al principio d’ogni predica immaginatevi di udir mai sempre dalla bocca del sacerdote quelle parole dello Spirito Santo: venite, filiae, audite me timorem domini docebo vos. Venite, o figliuole, ascoltatemi, io v’insegnerò il timor santo di Dio; cioè a dire, venite, ascoltatemi con affetto e con zelo, perocchè non si tratta qui della parola d’un uomo, ma della parola di Dio: timorem Domini; venite, ascoltatemi con quella riverenza che hanno i figli amorosi per l’amorosissimo loro padre; ascoltatemi con spirito di umiltà, di docilità, di semplicità, non per criticare o prendere in malo senso le espressioni del predicatore, ma per istruirvi e apprendere il modo di praticar la virtù, per farne vostro pascolo, per incarnarvela e divenir più sante.

VI.Oh se sapeste quanto talora vi possa fruttare una predica, un’istruzione ben udita! Oh se lo sapeste! Credete a me che vincereste ogni fatica, ogni incomodo per ascoltarla. Di Paolo chiamato il semplice si racconta che avendo egli per uso di mettersi spesso a sedere rincontro alla porta della pubblica chiesa per osservare cogli occhi purgatissimi del suo spirito quelli che vi concorrevano buoni e rei, vide una mattina (spettacolo tremendissimo) un peccatore tutto squallido, tutto mostruoso, il quale incatenato veniva fra due demoni, e dietro, ma assai da lungi aveva il buon angelo suo custode che lo seguiva con volto malinconico e passo lento. A tal vista Paolo proruppe in un grave pianto, ma tra poco altrettanto si consolò, perché all’uscire che quel misero fece dalla chiesa, non solo lo mirò libero dai demoni, ma lo vide anche sì bello, sì immacolato, si risplendente, che appena lo sapeva discernere da quell’angelo stesso che non più afflitto e turbato, ma festoso e brillante gli andava a fianco. Corre egli allora frettoloso a fermar quell’uomo; lo prega, lo scongiura, lo interroga, e al fine intende che quegli, udite dal pulpito quelle voci del Profeta Isaia; “Se i vostri peccati saranno neri come il cocco, diverranno bianchi siccome la neve”, si era talmente per la speranza del perdono eccitato a compunzione dei suoi falli, che superato ogni laccio tornava a casa con proposito fermo di cambiar vita. Oh chi potesse vedere quanto differenti si partono di chiesa molti dopo la predica, da quei che vi si condussero ad udirla, che bei prodigi potremmo sperare di veder noi pure! Che mutazioni! Che metamorfosi! Entrò in chiesa quella persona negligente e trascurata nell’adempimento di suoi doveri, ed ecco n’esce improvvisamente gemendo qual pia colomba per le sue volontarie imperfezioni, e risoluta di metter fine ai suoi difetti. V’entrò quel cuore pieno di risentimento e d’acrimonia per quel suo prossimo che li usò qualche sgarbatezza e malo tratto, ed ecco n’esce più mite, più mansueta d’una pecorella che si lascia spogliare anche della propria lana senza lagnanze. V’entrò quella invidiosa e maligna che s’ inorgogliava sull’abbassamento delle sue emole, ed ecco n’esce innocente più d’un agnello, e risoluta a soffrire in pace anche i propri aggravi, perché abbiano le meritevoli i dovuti riguardi. V’entrò quell’impaziente e fastidiosa, che in tutto trovava che dire, ed ecco n’esce qual cagnolino amoroso che si fa a tutti trattabile e a tutti molle. E che novità son coteste? Sono trasformazioni (chi non lo sa?) fatte per mezzo della parola evangelica, la quale ricevuta con attenzione, con riverenza, e custodita bene nel cuore ha virtù di operare nelle anime dei fedeli sì strani incanti. È questa divina parola che cangia gli uomini di peccatori in giusti, d’imperfetti in santi1, di tiepidi in serafini. Questa cambiò nell’Egitto un Mosè di feroce assassino in divoto monaco, mercè d’una sola predica dell’inferno da lui sentita quantunque a caso; questa una Pellagia
di dissoluta in romita; questa una Taida
di scandalosa in penitente: ed oh noi felici, mie N., se questa noi similmente di meno perfetti farà mai santi!

VII.Chi dunque non avrà fame, non avrà desiderio di ascoltar come si conviene questa parola sì necessaria, sì potente e sì prodigiosa? Chi non la riceverà con attenzione, con riverenza, e non la custodirà gelosamente nel proprio cuore per servirsene nella sua bisogna? Sì, sì, di nuovo vi torno a replicare con tutto il mio spirito. Procurate queste debite disposizioni; dimandatele a Dio con grand’istanza. E oltre a ciò, procurate, se non l’avete, di questa santa parola una tale fame, un desiderio, che vi animi a sprezzar tutto per ristorarvene. Quando si tratta di predica non è tempo di rimirare allora altri interessi, di badare ad altre facende, badare a informazioni, badare a visite, badare neppur a confessioni. Esaù avido di ristorarsi curò egli forse la sua primogenitura? Anzi, come voi sapete, la diede con troppo suo vitupero per un piatto di lenti. E gli Egiziani affine di nutrirsi non cedettero volontieri al loro provveditore Giuseppe tutti i loro averi? Fate voi dunque altrettanto: affine di nutrirvi della parola di Dio, di intervenire alla predica sprezzate tutto, lasciate ogni faccenda, e tutti gli affari rimandateli ad altro tempo. Si porga all’anima il suo caro pascolo, e vadane pur ciò che si vuole.